Mr. Holmes – Il mistero del caso irrisolto è un film riuscito solo a metà. Ci sono la Cornovaglia e i cottage e Sherlock – uno Sherlock molto vecchio, interpretato da Ian McKellen – e Londra e una giovane donna che non si sa bene che fine abbia fatto: Watson, ovvio, ne ha dato a suo tempo la consueta versione romanzata, che però non sembra rispondere a verità.
E c’è il fascino di tutte queste cose e di altre ancora: le coste erbose battute dal vento, la piccola casa di pietra sulla collina, i bei vestiti d’inizio secolo, guanti, cappelli e tappeti davanti al fuoco e tutto quello che è logico aspettarsi quando si parla di Sherlock Holmes e dell’Inghilterra.
C’è pure una specie di doppia trama, un filo sottile che si snoda tra Londra e il Giappone – un Giappone nebbioso e cupo, squarciato dalle ferite della guerra – e a volte s’intreccia col plot principale, appunto la misteriosa scomparsa della signora Kelmot.
Comunque il catalogo è questo: benché ormai fisicamente fragile, mentalmente senile e per di più inceppato dall’ostile diffidenza della governante di casa (una Laura Linney inasprita dalle disgrazie) nonché dalle previsioni apertamente iettatorie del medico curante, per Holmes, nonostante tutto caparbiamente deciso a ritirarsi a vita privata nel suo bel cottage in Cornovaglia, arriva un po’ tra capo e collo il momento psicologicamente adatto a riprendere in mano le fila di quello che circa trentacinque anni prima è stato il suo ultimo caso.
Ultimo perché irrisolto, come lui stesso racconta al figlio della governante, un bel ragazzino che gli fornirà senza volerlo la chiave della storia.
Nel film ci sono gli occhi incredibilmente azzurri e luminosi di Ian McKellen, che invecchiando va assomigliando sempre più a un elfo, un folletto o altra similare creatura incantata del folklore locale (quando si mette in ghingheri col cilindro e la marsina sembra un elegantissimo Leprecauno, in pratica un Leprecauno che abbia finalmente imparato a fabbricare anche l’altra scarpa); l’armonica a bicchieri suonata dalla signora Kelmot e il misterioso legame che in tal modo la donna riesce a stabilire coi figli morti prima di nascere, un bello spunto che purtroppo si svia anche troppo presto; l’appartamento affollato e teatrale della maestra di musica, una come al solito irresistibile Frances de La Tour (ve la ricordate? è la gigantessa amica del guardacaccia Hagrid nella saga di Harry Potter); le porcellane bianche e blu e le teiere scure e in generale tutto il fascinoso arredamento del cottage di Holmes; le facce che fa la Linney di fronte a ogni nuova prova della crescente amicizia tra il suo bambino e il vecchio investigatore.
Apprezzabile è poi il tentativo di dare del leggendario segugio inglese un ritratto lontano dagli stereotipi che hanno comprensibilmente finito col tediare lui per primo – il cappello da cacciatore, mai posseduto; la pipa, che non gli dispiace ma a cui preferisce le sigarette eccetera – benché forse il tutto avrebbe potuto esser più corto di almeno mezz’ora: sopprimendo, ad esempio, le reiterate inquadrature delle bianche scogliere, giallastre nell’incerta luce invernale; tutta la storia della lotta tra le api e le vespe, con le lunghe chiacchierate tra il vecchio e il bambino davanti alle arnie; il fiore di pepe e le sue proprietà; la pappa reale e le sue proprietà; l’importanza di non annaffiare un nido di vespe inferocite senza prima aver indossato un’armatura medioevale e un cappello con la garza; e così via.