IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA NELLA RIVISITAZIONE D’UNO DEI CAPOLAVORI DI AGATHA CHRISTIE
Trasmessa dalla BBC nel 2018 e nei giorni scorsi in chiaro in Italia su Paramount Network – che inaugura così una stagione d’un certo spessore per gli amanti del genere, tre serate in giallo dal mercoledì al venerdì -, Le due verità (titolo originale Ordeal by Innocence, 1958 by Agatha Christie Mallowan) è una miniserie diretta da Sandra Goldbacher e liberamente ispirata al romanzo della regina del giallo, che parlandone nelle sue memorie lo definì un libro prediletto assieme a È un problema (titolo italiano di Crooked House).
Questo il plot: Rachel Argyle (Argyll nella serie della BBC) viene trovata morta nel suo studio la sera della Vigilia di Natale del ’54, il cranio fracassato da un violento colpo alla nuca. Un delitto brutale del quale, per una serie di motivi, viene accusato il figlio adottivo Jack detto Jacko, uno dei cinque ragazzini che la ricca filantropa e il marito Leo (scialba figura di studioso perennemente immerso nei libri) hanno deciso d’includere per sempre nella famiglia dopo averli temporaneamente accolti come sfollati durante la guerra.
Assieme a loro, al momento della morte di Rachel, in casa ci sono o potrebbero esserci stati anche Gwenda Vaughan, segretaria e braccio destro di Leo, e Kirsten Lindstrom, già infermiera diplomata e poi governante di casa degli Argyle (spenta donna di mezz’età dal carattere schivo).
Arrestato il giorno successivo benché non faccia che dire di poter disporre d’un alibi per la sera del delitto, avendo chiesto un passaggio a uno sconosciuto che si potrebbe cercar di rintracciare, il ribelle Jack dal pessimo curriculum – di lui i familiari dicono che è stato “tremendo fin da bambino”, un adolescente dal carattere collerico e poi un giovane uomo perennemente a corto di soldi dedito a truffe e piccoli raggiri – poche ore prima del delitto aveva avuto un furibondo alterco con la madre ed era uscito di casa urlando minacce. Processato e condannato, Jacko – o muso di scimmia, come lo chiamano a volte – morirà di polmonite in carcere sei mesi dopo.
A quasi due anni di distanza da questi drammatici eventi, la vita della piccola comunità ospitata a Sunny Point (Punta del Sole o meglio Punta della Vipera, come i locali hanno sempre chiamato quella strana casa bianca sul promontorio) sembra essersi ricomposta in relativa armonia quando all’improvviso spunta dal passato Arthur Calgary, scienziato di successo appena tornato in patria dopo una lunga spedizione in Antartide.
Calgary, che per una serie di sfortunate circostanze per molto tempo non ha saputo nulla dell’omicidio della Argyle né della condanna del figlio, è l’uomo che guidava la macchina, l’uomo che la sera del delitto ha dato un passaggio a Jack, lo sconosciuto di cui il ragazzo ha sempre parlato, l’alibi mai verificato. Il mistero dell’assassinio della donna è dunque ancora insoluto e, per i sette sopravvissuti, l’incubo di nuovo ai nastri di partenza.
Nella serie della BBC, che riscrive abbastanza arditamente il romanzo soprattutto nel finale, risolto in chiave radicalmente diversa, forse il dato più interessante è la quasi sistematica riscrittura e ridefinizione dei personaggi. Vediamone i più importanti.
Alice Eve è Gwenda Vaughan, “la donna davvero attraente per quanto non più giovanissima… abile e intelligente, con un’aria di vitalità e di buona salute”, da anni innamorata del suo datore di lavoro e sul punto di sposarlo adesso che il principale ostacolo a queste nozze è fortunosamente uscito di scena: una delle tante giovani donne autonome e coraggiose della Christie, insomma, innamorate senza speranza del principale finché questi è ancora sposato ma capaci di riconoscere un’occasione quando si presenta.
Nella miniserie britannica Gwenda diventa una specie di stagionata pin up dai reggiseni imbottiti e dagli occhi duri, ansiosa di consolidare con una cerimonia ufficiale il suo nuovo status di padrona di casa e sbrigativamente pronta a liquidare con qualche lapidaria malignità l’opposizione più o meno velata dei giovani Argyll.
Matthew Goode (l’indimenticabile esponente della jeunesse dorée londinese che in Match Point presenta alla sorella il protagonista di belle speranze) è Philip Durrant, marito invalido della prima figlia Mary: paralizzato dalla vita in giù non più, come nel libro, per una polio contratta in età adulta ma a causa d’un incidente d’auto che l’ha costretto a dire addio alla sua superomistica esistenza di eroe dell’aria (è un tenente dell’aviazione decorato), inacidendogli l’umore e colmandolo d’un ingiustificato rancore nei confronti della moglie (rancore del tutto assente nel libro, dove Philip appare solo comprensibilmente rattristato per la sua sorte e ansioso di distrarsi improvvisandosi detective). Un po’ come accade al personaggio del marito di lei ne La cruna dell’ago di Follett, cui questa versione di Durrant sembra somigliare.
Sotterraneamente furioso per l’esiguità dell’appannaggio concesso da Leo alla figlia, nel film Philip cercherà di sfruttare l’improvvisa comparsa di Calgary per mettere a segno un ricatto (non molto chiaro, in verità, il modo in cui intenderebbe procedere, ma tanto l’altro rifiuta). Marcatamente diverso il personaggio di Arthur Calgary (Luke Treadaway), trent’anni appena e non più quaranta come nella Christie: incerto, tormentato, un po’ pavido, nella versione della BBC Arthur è fondamentalmente un ragazzo smarrito che nasconde un terribile segreto.
Anna Chancellor (la meravigliosa Faccia da chiulo di Quattro matrimoni e un funerale) è poi la terribile Rachel Argyll. Massiccia, d’alta statura, infagottata in ricche stoffe e crudeli pelliccioni, i tratti un po’ appesantiti dagli anni e gli occhi dall’espressione tragica nel viso bianchissimo incorniciato dai capelli troppo neri, questa Rachel sembra un po’ Clitennestra: una Clitennestra senza relazioni adulterine all’attivo ma comunque responsabile dell’azzeramento psicologico del marito Leo, progressivamente esautorato da ogni pur minimo ruolo all’interno del nucleo familiare.
Nei ricordi dei figli specie di strega tirannica e anaffettiva, capace di rovinare il matrimonio della giovane Mary con una serie d’osservazioni al limite della crudeltà mentale degne delle più agguerrite matrigne delle favole (nonché di stordir coi sonniferi un’altra figlia che ha osato abbandonare il tetto materno per riportarla esanime a casa), il suo personaggio appare forzato rispetto all’invenzione christiana che la vede, sì, autoritaria e egocentrica ma non apertamente disturbata come appunto i numerosi flashback dei giovani Argyll sembrerebbero suggerire – pur ammettendo che i loro ricordi possano esser viziati e distorti dal trascorrere degli anni e dal rancore (ma perché, comunque, tanto rancore?).
Hester Argyll è forse il personaggio che subisce la più notevole metamorfosi fisica, passando dal “tipo irlandese” del libro, la fanciulla “giovane, guardinga e ostile” che apre la porta a Calgary (“l’azzurro cupo degli occhi ombreggiati dalle ciglia scure, i neri capelli indocili, la delicata bellezza della struttura cranica e degli zigomi… indifesa, predestinata, con la catastrofe che le muove inesorabilmente incontro… dal futuro”) all’aspetto marcatamente adolescenziale e svagato della piccoletta in scarpe da tennis e coda di cavallo impersonata da Ella Purnell (Miss Peregrine e la casa dei ragazzi speciali, lei è quella costretta a calzar scarpe imbottite di piombo per non volar via).
Benché nel film non si parli della presunta vocazione teatrale che la spinge, nel romanzo, a scappare di casa, la giovane Argyll della serie della BBC, per quanto il suo “far la bambina” risulti appunto accentuato rispetto al libro, appare però caratterialmente piuttosto fedele all’originale, restando in sostanza la fanciulla inquieta, insicura e profondamente delusa del giallo christiano (dove però dopo esser rientrata nei ranghi si fidanza con un “giovane medico pomposo” che poco la capisce e che sarà inevitabilmente scaricato nel finale).
Eleanor Tomlinson è Mary Durrant, la prima dei cinque a esser stata scelta per entrare a far parte della famiglia: personaggio quasi immutato nel passaggio dalla carta stampata al cinema, non fosse per il deciso colpo d’acceleratore registico sull’infelicità del suo matrimonio con l’invalido Durrant (che nel film la tratta con sadismo, brutalizzandola psicologicamente) e sul suo sentirsi astiosamente, dolorosamente al di sopra degli altri quattro, adottati tutti dopo di lei (“Voi siete capitati… Io sono stata scelta. Avete rovinato tutto”).
Crystal Clarke è Tina Argyle: giovane donna dalla pelle scura e dal temperamento riservato e tranquillo nel romanzo della Christie, si rende protagonista nel film d’una sassaiola per le vie del paese con un gruppo di giovinastri che l’infastidiscono (lei, ricca e nera, nell’Inghilterra rurale degli anni 50). Per il resto invariabilmente sommessa e controllata, con quest’imprevista manifestazione di “cattivo” carattere l’altrimenti docile Tina (il “gattino nero” cui bastano un paio di carezze e una ciotola di latte per esser felice, nelle parole affettuosamente ironiche del fratellastro Mickey) si guadagnerà un’immediata lavata di capo dal pur mite padre adottivo – che, tuttavia, terminata a fatica la “doverosa” ramanzina non si periterà dal chiamarla “figlia prediletta”, causando all’altra figlia Mary, reduce dall’ennesimo scontro col marito e per caso in ascolto dietro la porta, un ulteriore picconamento emotivo.
Il giovane Mickey Argyle cambia anche lui relativamente poco. Nel serie britannica ha gli occhi azzurri e il fisico squadrato di Christian Cooke e appare più decisionista e coinvolto rispetto al personaggio del libro, dominato da un profondo rancore nei confronti della madre adottiva – che l’ha strappato a tutto il suo eccitante universo di monello londinese per consegnarlo a un’insipida esistenza campagnola – e costantemente avvolto da una corazza di cinismo. Nel film è lui che a più riprese tenterà di sbatter fuori dai piedi il giovane Calgary, nel presumibile intento di risparmiare agli altri di casa ulteriori sofferenze.
Un notevole Anthony Boyle è poi l’indomabile Jack Argyll, scandaloso, dispettoso, vendicativo e astuto forse più nel film che nel libro (soprattutto grazie all’appunto magistrale interpretazione di Boyle), autoelettosi piaga della famiglia nel senso biblico del termine, castigo, pena, abominio e onta dei molto onorevoli genitori e degli schifiltosi vicini, vortice di rabbia e sale sparso sui tuoi campi (come prometterà sghignazzando a un impietrito Leo Argyll nel memorabile confronto dietro le sbarre). Osceno, sorridente, disperato e crudele, Anthony-Jacko è forse la cosa migliore del film.
Kirsten Lindstrom, massiccia svedese di mezz’età dal carattere ombroso e dall’aspetto dolorosamente anonimo nel libro (con quei “capelli biondastri striati di grigio impastati sulla testa”) assume nel film i tratti minuti e il fisico sottile di Morven Christie. Enigmatica figura d’ancella custode dei più inconfessabili segreti, l’ex infermiera e poi dama di compagnia e governante di casa del piccolo gruppo ospitato a Sunny Point appare nel film decisamente più giovane e graziosa del personaggio descritto dalla Christie e soprattutto nel suo affetto per i giovani Argyll illuminata da un’insospettabile vocazione alla felicità che la allontana dall’austera Kirsty del romanzo schiudendole, forse, la possibilità d’una redenzione (resa possibile del resto dalla diversa soluzione adottata per il finale).
Il vecchio leone Bill Nighy (ma quant’è fascinoso quest’uomo?) è un ingessato, a tratti pietrificato Leo Argyle, stretto tra il rimpianto d’obbligo per la moglie morta, il cui ritratto in vestitone giallo senape e sopracciglio inarcato domina ancora l’ampio ingresso di casa a Punta del Sole (tra parentesi più simile, quest’ultima, a un castello settecentesco che all’anonima casa bianca sulla collina descritta dalla Christie) e l’ansia di vivere almeno un po’ prima di sentirsi troppo vecchio per farlo. Scricchiolante (e tuttavia perciò stesso rivelatrice…) combinazione, certo, quella da lui scelta, stante il carattere aggressivo e i modi non proprio da signora dell’ex segretaria e futura consorte, che non a caso nella versione christiana appare decisamente più simpatica, in accordo con la positiva personalità del capofamiglia – pur sempre vessato e conculcato dalla moglie – e col diverso finale con cui si conclude il romanzo.