TRAMA
Bisogna essere esperti, molto esperti, per poter dirigere con fermezza la brigata di un ristorante, tanto più se si è nel centro di Bologna e se ti si presentano turisti che hanno sentito dire di piatti che in realtà non esistono, come gli spaghetti alla bolognese, e li ordinano pure con nonchalance. Ma proprio perché si esperti e navigati del mestiere ci si accorge anche immediatamente quando le giornate iniziano male: un membro dello staff che si ferisce con un coltello, la sala che ospita una blogger famosa che quindi fa salire la tensione, qualche errore in qualche pietanza, un tipo strano che mangia da solo e soprattutto una bella ragazza che dopo aver infilato in bocca una forchettata di tagliatelle si sdraia nel bagno e si contorce in preda a una crisi allergica, mandando buona parte del personale e della clientela nel panico più totale. Eppure, Emilio Zucchini a capo della brigata de la Vecchia Bologna, è sicurissimo di non poter aver sbagliato in nulla, ci sta attentissimo alla lista degli allergeni e poi mai e poi mai avrebbe messo l’ingrediente incriminato nel suo sugo.
Mai. E quindi cosa è successo?
È successo che nel pandemonio generale qualche manina lesta si è intascata la busta delle mance del personale approfittando della cassa lasciata aperta e si è volatizzato mentre arrivava l’ambulanza a soccorrere la ragazza e portarla in ospedale.
Esperti bisogna essere, molto esperti, se si vuole dirigere una brigata diversa da quella di una trattoria, ma altrettanto problematica ed eclettica come una squadra in un commissariato, ne sa qualcosa il buon Iodice catapultato in uno dei casi più difficili della sua vita in cui, tra le pressioni di una intera città e del questore, deve, in ordine, ritrovare la Madonna di San Luca, simbolo della città, rubata dal duomo di Bologna in una sera come tante altre e senza che nessuno si accorgesse di nulla, individuare il responsabile e consegnarlo alla giustizia, e indagare su tutto senza creare il panico generale. Ma chi ha rubato nella cassa de la Vecchia Bologna e chi ha sottratto a una intera città il quadro della sua santa protettrice nella stessa sera? Zucchini e Iodice finiranno per incontrarsi?
PERSONAGGI
Emilio Zucchini, ristoratore bolognese, attento e preciso cultore della cucina tradizionale della sua città, è un personaggio che i lettori di Filippo Venturi hanno già imparato a conoscere nel precedente romanzo Il tortellino muore nel brodo. È uno scapolo impenitente che a volte si sente solo, ma a volte sa anche godersi appieno la vita da single e che ama circondarsi di amici e conoscenti abbastanza sui generis, ma proprio per questo, adorabili a prima lettura. Venturi, però, ha anche un’altra passione oltre la cucina: gli piace indagare. A tempo perso, si intende, ma non ne può fare a meno, perché la sua mentalità speculativa e il suo istinto naturale non gli danno pace fino a che non arriva a sbrogliare il bandolo della matassa delle avventure, che volontariamente o involontariamente, finiscono per capitargli. Pertanto, chi non avesse avuto modo di leggere la precedente vicenda del personaggio principale dei romanzi di Venturi, si affezionerà immediatamente a Zucchini leggendo anche solo questo secondo romanzo. L’autore, però, questa volta fa di più e come controcanto azzeccatissimo gli affianca il personaggio di Mirko Gandusio, detto il Grande Gandhi. In realtà uno sfigato, disadattato, impacciato e mezzo stordito che da solo vale l’intera lettura del romanzo. Le pagine che Venturi riserva e dedica a lui sono brillanti, appassionanti, comiche e tragiche allo stesso tempo. Gandusio è il deus ex machina della narrazione. Senza di lui buona parte delle azioni e delle conseguenze che animano la storia non avrebbero ragione di esistere. La sua telefonata alla Curia di Bologna è un cammeo preziosissimo che dovrebbe essere utilizzato come paradigma se si vuole scrivere qualcosa di altrettanto efficace.
Però è troppo facile parlare dei personaggi principali che, bene o male, in ogni buon libro risultano sempre tratteggiati con cura, più difficile è descrivere con precisione e altrettanta bravura i personaggi minori, soprattutto se sono solo comparse, come la food blogger delle prime scene o la coppia di “silenziosi” avventori che sono sposati e stanno insieme da così tanto tempo ormai che anche quando vanno a cena fuori non scambiano quasi una parola, oppure, forse, sono solo stanchi.
Insomma, Filippo Venturi non si risparmia e non risparmia il lettore regalando una carrellata di personaggi uno più azzeccato dell’altro tra cui spicca, naturalmente, anche Iodice, l’investigatore meno probabile che la giallistica italiana abbia mai avuto.
AMBIENTAZIONE
Bologna e solo Bologna. Il capoluogo emiliano regna sovrano su tutta la narrazione. Non c’è niente altro e non poteva esserci altro. Tutto inizia e si consuma nelle sue trattorie, nei sui vicoli, nella sua periferia, tra le sue colline e nelle sue chiese. Monumenti simbolo che l’autore spiega con cura e con pazienza a chi legge informandolo che il vero Duomo della città è San Pietro, in via dell’Indipendenza, e non San Petronio, che è solo la chiesa nella piazza più grande, che si chiama piazza Maggiore e non piazza Grande, come pensano in molti. E così, leggendo il romanzo di Venturi si fa anche un giro turistico virtuale nella città universitaria più antica di Europa. E Bologna non è solo fisica e geografica in questo libro, è anche uno stato d’animo che racconta di vecchi locali alla moda ormai ridotti in fallimento, pellegrinaggi alla Madonna di San Luca, nostalgie di tempi perduti e pervicacia degli abitanti a tenersi strette le proprie tradizioni. Un mood che solo un bolognese doc come Venturi è riuscito a riportare con grande sentimento.
CONSIDERAZIONI
Chi legge non deve farsi ingannare dallo stile brillante di Filippo Venturi e dalla sua facilità di raccontare. In realtà, la black comedy è un genere difficilissimo perché proprio come in una ricetta elaborata ogni ingrediente deve essere saputo dosare con grande perizia. Azione, tensione, mistero e umorismo in bocca al lettore si devono sentire tutti e nessuno deve coprire gli altri. La bellezza del genere poggia proprio su questo. Su questa capacità di essere uno chef stellato della narrazione tanto da far desiderare a chi legge di chiedere sempre il bis. Venturi, inoltre, in questo romanzo fa una cosa imprevista e vincente: distrugge bonariamente la sua lingua madre. Prende di mira le esse e le zeta, le inserisce in frasi complicate ed esilaranti e permette al lettore di riderne. Non è sacrilegio, è condivisione. È come dire: io lo so cosa pensate del dialetto bolognese e quindi ridiamoci sopra insieme. Un tocco di classe. Una strizzata d’occhio ai lettori. La ciliegina finale su un racconto perfetto.
INTERVISTA
Filippo chi ha letto già di Emilio Zucchini nel tuo lavoro precedente non potrà che essere felice di ritrovarlo anche nel tuo ultimo romanzo, ma la vera novità dei questo libro è senza dubbio il personaggio di Mirko Gandusio. Un vero capolavoro autoriale, perché il lettore fino all’ultima pagina non sa se amarlo alla follia o prenderlo a ceffoni. Da dove nasce questo personaggio e a chi o cosa ti sei ispirato?
Gandhi è ispirato a un soggetto che ricorre spesso nei miei testi. Se ci pensi, anche Joe Solitario nel “Tortellino” aveva in un certo senso caratteristiche simili. Sono personaggi – o meglio dire: persone – che hanno avuto difficoltà nella vita e sono rimaste incastrate in qualche ostacolo. Nella nostra quotidianità ci imbattiamo di continuo in donne e uomini che non ce l’hanno fatta. Magari sono a un angolo della strada, oppure li vedi deboli, soli, alienati, emarginati, o anche solo un po’ strampalati. Semplicemente diversi da quello che è il nostro immaginario collettivo che ci vorrebbe tutti felici e appagati. Li giudichiamo. Li schiviamo. Li guardiamo e scuotiamo la testa. Poi la giriamo dall’altra parte. Ma ogni persona si porta dietro una storia. Ognuno ha un suo percorso. La gente spesso non ce la fa non per demeriti suoi, ma perché qualcosa non ha funzionato. Gandusio è uno di questi. Ti ringrazio per la tua considerazione, mi rende felice, perché io lo volevo esattamente così: uno che a prima vista lo prenderesti a ceffoni, un buono a nulla, incapace, poi lo conosci meglio e ti stupisci di capirlo. Finisci perfino col volergli bene. Io nella vita sono sempre stato dalla parte dei più deboli. Non so perché. È come un istinto. C’è una squadra debole e io la tifo. Sono fortitudino da sempre, forse la squadra di basket più perdente della storia. Ma più perdiamo e più ho voglia di ricominciare. C’è un pugile che le prende e io spero riesca a reagire. C’è una persona in difficoltà e provo a comprenderne i motivi, anche se spesso non è facile. Nei romanzi lo è molto di più. So già fin dall’inizio che mi metterò dalla parte dei più deboli. Offro loro una possibilità di riscatto, la classica seconda chance che nella vita reale non capita quasi mai. Poi tocca a loro.
C’è un parallelismo interessante nella tua storia e che salta immediatamente agli occhi di chi legge: due brigate che non potrebbero essere più diverse tra loro e dirette da persone che non potrebbero essere più differenti. Una sta in cucina e ha come comandante Zucchini e l’altra sta in commissariato ed è guidata da Iodice. Eppure per strade parallele e per assonanze tipicamente letterarie le due brigate finiscono ognuna per compensare l’altra nell’intera narrazione. Che ricetta è questa? Come ti è venuto in mente di accostare i due “ingredienti”?
Anche questa risposta ha a che fare con la precedente. Gioco a stravolgere le cose, non voglio che nulla sia scontato. Il cliché (assolutamente vincente) del commissario buono e giusto, perspicace e magari dannato, tanto caro alla tradizione gialla italiana, purtroppo non mi appartiene. Quando scrivo, mi piace sorprendere soprattutto me stesso. Emozionarmi e divertirmi. Avere quella sana incoscienza (che nella vita ahimè non ho) di portare il lettore dove non si aspetta, in un punto della storia non banale, a volte in modo un po’ spericolato. D’altronde, basta accendere la televisione, aprire un quotidiano, cliccare su un link, per rendersi conto che il bene e il male sono concetti a volte sbiaditi, confusi e mescolati. Spesso, nella vita di tutti i giorni, chi ti deve proteggere ti attacca e viceversa, e tu non sai più chi siano i buoni e chi i cattivi. La figura sgangherata del commissario Iodice è in linea con tutto questo, soprattutto considerando il fatto che il mio “eroe” deve essere Zucchini e a Iodice, per forza, tocca la parte dell’antieroe.
Il tuo ultimo romanzo è ancora una volta una black comedy con pagine di grande umorismo dove si sorride con piacere, ma questa volta c’è anche un qualcosa in più oltre al mistero e all’ilarità: c’è un sentimento di solitudine che attraversa tutto il racconto e che inevitabilmente fa riflettere il lettore. È una cosa voluta o ti è venuta così e basta mentre scrivevi?
Questa considerazione mi fa pensare, mi tocca nel vivo. Ho sempre immaginato Emilio Zucchini come mio alter ego. Gli ho affibbiato caratteristiche che sono mie proprie, per andare a colpo sicuro nella costruzione del suo personaggio, affidandomi a cose che conoscevo bene. Zucca è perspicace, sa stare in mezzo alla gente, sa ascoltarla, ama Bologna, le sue tradizioni culinarie in primis. Ma l’ho volutamente reso single, proprio per distinguerlo da me, una sorta di Filippo Venturi che non incontra la donna della sua vita, o forse non la vuole incontrare, e di conseguenza non si costruisce una famiglia. L’ho fatto a cuor leggero, pensando che sarebbe potuto tranquillamente capitare anche a me. Questa solitudine con ogni probabilità mi è emersa inconsciamente. Ma hai ragione: è una malinconia di fondo che striscia in qua e là, nitida. Io credevo che lui fosse libero e sereno. Invece è proprio solo. Ho pensato tanto a Zucchini in questi mesi, e a chi, come lui, si è ritrovato in quarantena chiuso in casa senza nessuno con cui confrontarsi, con cui aiutarsi. Non posso nemmeno immaginare quanto sia stata dura. E ho capito che, dei due, sono io quello fortunato.