PROVE GENERALI DI RIVOLUZIONE. O INVOLUZIONE?
di BARBARA MONTEVERDI
La storia, un noir ambientato nell’inquieta Roma degli anni ’70 del 1900, con tutto il suo corredo di manifestazioni di piazza, gruppi extraparlamentari, picchiatori vari e rivolte carcerarie è ben impostata e i frequenti cambi di scena e di punti di vista rendono la lettura fluida, dimostrando che la scrittura a quattro mani funziona piuttosto bene.
Peccato qualche ingenuità, come chiamare Proietti il giornalista bergamasco che anela il ritorno all’ovile e non perde il suo accento neppure a contatto col romanesco, che normalmente è virus che non lascia scampo. Insomma, il cognome non mi è parso azzeccatissimo, come se un romano de Roma si chiamasse Brambilla, per intenderci; però la trama funziona essendo basata su documentazione dell’epoca e il racconto complesso dei legami tra potere economico, spaccio di droga (in quegli anni in enorme espansione), politica, forze dell’ordine e malavita è molto veridico e assolutamente credibile.
Tutto questo, però, porta a leggere il romanzo come fosse un saggio e distoglie l’attenzione dall’aspetto narrativo vero e proprio. Personalmente, ho provato poco interesse per la deriva “stupefacente” di Carlo, giornalista alle prese con una pesante dipendenza da ogni forma di sostanza più o meno acida, ma mi ha molto coinvolta la descrizione degli ambienti studenteschi, del clima ondivago, violento, confuso, velleitario, pieno di progetti poco concretizzabili, ma in cui si credeva con la forza della gioventù, con la grinta di chi vuole costruire un mondo migliore. Da vecchia sessantottina, oggi penso che avremmo dovuto volare più bassi: bastava rappezzare il mondo che avevamo, ma è andata così e molto è scivolato tra le dita.
Comunque, mettendo da parte queste elucubrazioni passatiste, la narrazione risulta scorrevole e molto movimentata, rendendo perfettamente l’idea di ritmi e stili di vita di una città (in questo caso Roma, ma potrebbe essere una qualsiasi altra metropoli) e di un Paese che stava cambiando velocemente e non sapeva ancora quanto e come.
A Roma c’erano più giornalisti che in tutta Italia. A Roma c’erano più buche che sampietrini. A Roma c’erano più palazzinari che santi. A Roma, sul Lungotevere, all’altezza di Piazza Mazzini, a duecento metri dalla sede centrale della TV di Stato e cinquecento da Piazza del Popolo, galleggiava un mega-boat. A Roma li chiamavano “i barconi”. Dentro c’erano ristoranti, dopolavoro, club privati, bische.
Le ultime 130 pagine prendono davvero la cadenza di noir e la vicenda, oltre che interessante, diventa molto avvincente e mi spiace non aver dato indicazioni legate alla trama, ma è impossibile spiegare una rivoluzione socio-economica: bisogna viverla, o leggerla come fosse la sceneggiatura di un film. Ma è tutto vero, posso garantirlo per aver respirato quegli anni caldi, appassionanti, terribili.
TRAMA
Roma, 1970. Cinquecentosessanta tossicomani al di sotto dei 25 anni. Nessun eroinomane. L’eroina a Roma è sconosciuta. Novembre 1975. Gli eroinomani in Italia sono stimati in ventimila. L’Italia è traumatizzata dai primi morti di eroina. L’eroina non è arrivata misteriosamente, a caso, tutto d’un tratto. “Il figlio peggiore” è un romanzo che prende spunto dai fondamentali documenti del ROS e dalla testimonianza di un ex agente del SID relativi all’inchiesta sull’operazione Blue Moon, nome in codice della capillare opera di somministrazione di stupefacenti in ambienti legati ai movimenti di opposizione, parte di un più ampio piano di guerra “non convenzionale”.
Il figlio peggiore
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