Di Stephen Graham Jones in Italia non sono arrivati mai arrivati romanzi … o forse mi sbaglio. Ma questa è sicuramente la prima edizione di “The only good indians”, romanzo che ha vinto il “Bram Stoker Awards” e il “Shirley Jackson Awards” … Non si accettano domande sul genere del romanzo, basta leggere i premi per capire la comfort-zone dello scrittore “Piedi neri”. Un romanzo che racconta la vita dei nativi americani offrendo al lettore un punto di vista, dove tradizione e attualità collidono con la vita moderna.
TRAMA
Lewis, Gabe, Ricky e Cassidy sono quattro giovani indiani cresciuti insieme in una riserva ai confini col Canada. Il legame che li univa si è spezzato quando Ricky è morto all’improvviso: una rissa fra ubriachi, secondo la versione ufficiale. Ma è davvero andata così? Sono passati ormai dieci anni, i ragazzi sono diventati uomini e si sono più o meno integrati nella società bianca, lasciandosi alle spalle gli eccessi di gioventù ma anche un fardello con il quale non hanno mai fatto davvero i conti: le regole e le tradizioni della riserva. Il ricordo dell’amico scomparso, però, non li ha mai abbandonati. Con esso, torna prepotentemente a turbare le loro coscienze un episodio del passato che li ha segnati, mettendo fine per sempre alla loro innocenza: una battuta di caccia finita male. Una storia difficile da dimenticare, che oggi torna a perseguitarli. È Lewis il primo ad accorgersi di una presenza inquietante in casa sua, e a questo punto ognuno di loro inizia ad avere paura, per sé e per i propri cari…
ESTRATTO
Williston, north dakota
Il titolo di giornale per Richard Boss Ribs sarebbe stato indiano ucciso in una lite fuori da un bar.
Che è un modo per dirlo.
Ricky aveva trovato lavoro in North Dakota con una squadra di trivellazione. Siccome era l’unico indiano, lo chiamavano “Capo”. Siccome era nuovo e probabilmente temporaneo, era sempre lui che veniva mandato giù a guidare la catena. E ogni volta che ritornava con tutte le dita, girava per la piattaforma con i pollici alzati per far vedere quant’era fortunato e che niente l’avrebbe mai scalfito.
Ricky Boss Ribs.
Se l’era filata dalla riserva all’improvviso, quando il fratello minore Cheeto era morto di overdose nel soggiorno di qualcuno, con il televisore, gli dissero, sintonizzato su quella telecamera che non fa che inquadrare dall’alto il parcheggio dell’iga. Era la questione su cui Ricky non riusciva a smettere di rimuginare: quel canale lo guardavano solo gli anziani vecchi sul serio. Una testimonianza in diretta di quanto la riserva fosse una merda, una noia, il nulla. E suo fratello minore non guardava molto nemmeno i programmi normali, non ci riusciva a stare lì fermo, caso mai avrebbe letto dei fumetti.
Invece di gironzolare alla veglia funebre e di starsene fermo sulla tomba di famiglia alle spalle di East Glacier, con tutte le auto parcheggiate sulla strada sterrata lì dietro che sarebbero dovute arrivare proprio fino alle lapidi per fare inversione, Ricky scappò in North Dakota. Il suo progetto era raggiungere Minneapolis – conosceva dei tipi lì –, ma poi a metà strada la squadra petrolifera assumeva, e dicevano di apprezzare gli indiani per la loro innata resistenza al freddo. Significava che forse d’inverno non se la sarebbero squagliata.
Ricky, seduto nella roulotte arancione per il colloquio, aveva annuito. Sì, i Piedi Neri non temono il freddo, e no, non li avrebbe lasciati a corto di manodopera in mezzo alla settimana. Quello che non disse è che non diventi resistente al freddo perché le tue giacche fanno schifo, semplicemente dopo un po’ smetti di lamentartene, perché le lamentele non ti tengono più caldo. Non disse neanche che al primo assegno paga se ne sarebbe andato a Minneapolis e arrivederci.
Il caposquadra che gli aveva fatto il colloquio era grosso, la pelle riarsa dal vento, biondiccio e con una barba simile a una spugnetta abrasiva. Quando si era allungato sul tavolo per stringere la mano di Ricky guardandolo negli occhi, il mondo moderno era svanito per un lungo istante e i due si erano ritrovati in una tenda di tela, il caposquadra con una giubba della cavalleria, e Ricky, che aveva già delle mire sui bottoni d’ottone di quella giacca, non stava affatto pensando a tutti i fogli sul tavolo che aveva appena siglato.
Gli stava capitando sempre più spesso negli ultimi mesi. Dall’inverno precedente, quando la caccia era finita male, e fino a quel momento durante il colloquio, senza interrompersi nemmeno per il fratello morto su un divano.
Cheeto non era il suo vero nome ma, siccome aveva i capelli rossi e le lentiggini, non era un nome di cui poteva liberarsi.
Chissà com’era andato il funerale. Chissà se in quel momento c’era un grosso cervo mulo che avvicinava il muso alla rete da pollaio intorno a tutti quegli indiani morti. Chissà che cosa vedeva, in realtà, quel grosso cervo mulo. Se stava solo aspettando che tutti quei bipedi se ne andassero.
Cheeto l’avrebbe trovato un bel cervo, pensò Ricky. Da ragazzino non si era mai alzato per andare nei boschi con Ricky quando spuntava il sole. Non gli era mai piaciuto far fuori niente a parte le birre, e probabilmente sarebbe diventato vegetariano, se nella riserva ce ne fosse stata la possibilità. Già i capelli rossi lo rendevano un bersaglio facile. Mangiare roba per conigli avrebbe solamente spinto altri stupidi indiani a mettersi in fila per umiliarlo.
Ma poi era morto comunque su quel divano, neanche per mano di un altro, e a quel punto Ricky aveva pensato di andarsene anche lui, e al diavolo. Certo, per un paio di settimane poteva fare la scimmia alla catena per quella squadra. Sì, poteva dormire in una cuccetta da quattro con tutti quei bianchi e il vento che scuoteva la roulotte. No, non gli dispiaceva essere il Capo, pur sapendo che, se fosse vissuto ai tempi in cui si inseguivano e si catturavano bisonti, sarebbe stato un soldato semplice anche allora. Qualunque fosse la versione con arco e frecce di una scimmia alla catena, quello sarebbe stato il rango di Ricky Boss Ribs.
Quando era piccolo, in biblioteca c’era un libro illustrato sul Salto del bufalo schiantato o come diamine si chiamava, dove i Piedi Neri di una volta spingevano giù dal dirupo una mandria dopo l’altra. Ricky si ricordava che il ragazzo scelto per correre davanti ai bisonti con una pelle di vitello sulle spalle era quello che aveva vinto tutte le gare fatte disputare dagli anziani ai giovani della tribù, ed era quello che si arrampicava meglio sugli alberi, perché bisognava essere veloci per correre davanti a tutte quelle tonnellate di carne e, dopo essersi gettati di slancio dal dirupo all’ultimo momento, servivano buone mani per aggrapparsi alla corda che avevano piazzato gli uomini e rannicchiarsi di sotto, al sicuro.
Chissà com’era starsene seduto lì mentre i bisonti volavano nel vuoto a un passo da te, muggendo, probabilmente con le zampe rigide perché non sapevano per certo quando sarebbero arrivati a terra.
Che sensazione si provava a procurare carne all’intera tribù?
Ce l’avevano quasi fatta quell’ultimo Ringraziamento, lui, Gabe, Lewis e Cass ne avevano tutte le intenzioni, per una volta sarebbero stati anche loro quel tipo di indiani, avrebbero mostrato a tutta Browning come si faceva… ma poi era arrivata la neve grossa ed era andato praticamente tutto a scatafascio, e Ricky era rimasto in North Dakota, come se non avesse altra scelta.
Fanculo.
A Minneapolis sarebbe andato a caccia solo di tacos e di un letto.
Ma, fino ad allora, quella birra poteva andare.
In ogni angolo del bar c’erano soltanto operai delle piattaforme. Ancora nessuna rissa, ma era solo questione di tempo. C’era un altro indiano, Dakota probabilmente, che ciucciava da una bottiglia vicino ai tavoli da biliardo. Aveva accennato un saluto e Ricky aveva ricambiato, ma tra i due c’era la stessa distanza che correva tra Ricky e la sua squadra.
E soprattutto, tra loro e gli altri c’era una cameriera bionda che teneva in equilibrio sulle mani un vassoio di bottiglie vuote. Cinquanta paia d’occhi la seguivano passo passo. Per Ricky somigliava alla ragazza alta con cui Lewis se n’era andato a Great Falls a luglio, ma lei probabilmente l’aveva già mollato, e quindi adesso Lewis se ne stava seduto laggiù, in un bar identico a quello, a staccare l’etichetta dalla birra proprio come lui.
Ricky alzò la bottiglia per un saluto a distanza.
Quattro birre e nove canzoni country dopo, si era messo in fila per l’orinatoio. Solo che la coda si snodava già fino in fondo alla sala, e l’ultima volta c’era già chi pisciava nel cestino dei rifiuti e nel lavandino. L’aria lì dentro era gialla e sabbiosa e quasi scricchiolava tra i denti quando Ricky aveva aperto per caso la bocca. Non era certo peggio dei cessi chimici che usavano all’impianto, ma almeno lì potevi abbassarti la cerniera da qualsiasi parte e via.
Ricky lasciò perdere, si scolò la birra, perché gli sbirri adorano un indiano con una bottiglia in mano nei grandi spazi aperti, e cominciò a farsi largo per uscire a prendere una boccata d’aria fresca, e magari trovare il palo di uno steccato disperatamente bisognoso di un’annaffiata.
Alla porta, il buttafuori aprì la mano grassoccia contro il petto di Ricky e lo avvisò di non uscire. Disse qualcosa sul numero dei presenti e le norme di sicurezza.
Ricky gettò un’occhiata oltre la porta aperta e vide la massa di operai e cowboy in fila per entrare: lo guardavano con occhi accesi ma senza chiedere niente. Per rientrare si sarebbe dovuto accalcare lì in mezzo in attesa del suo turno. Ma ormai non era più una sua decisione, giusto? Nel giro di novanta secondi non l’avrebbe più trattenuta, perciò, pur di trovare un posto dove farla senza combinare un casino, andava bene tutto.
Poteva stare mezz’ora in fila per adocchiare ancora un po’ quella cameriera bionda, certo. Ricky si girò di lato per passare accanto al buttafuori, indicando con un cenno del capo che sapeva cosa stava facendo, e già un operaio si spingeva avanti per prendere il suo posto.
Non ebbe nemmeno il tempo di correre con le gambe rigide di lato al bar, vicino alla pila fumante di sacchetti ammucchiati sopra i cassonetti. Tirò dritto nella distesa di grossi pick-up parcheggiati più o meno in fila e si liberò lungo la strada quasi prima di riuscire a fermarsi, costretto a piegarsi all’indietro perché era davvero un getto da idrante.
Chiuse gli occhi per il piacere più assoluto che provava da settimane e quando li riaprì ebbe la sensazione di non essere più da solo.
Si preparò.
Solo gli indiani stupidi passano vicino a un branco di bianchi dalle mani callose, ognuno dei quali è convinto che la sedia che occupavi al bar spettasse a lui di diritto. Se il Capo sta in mezzo a loro a fare la scimmia alla catena, nessun problema, ma quando si tratta di mettere gli occhi su una donna bianca, be’, allora è tutto un altro paio di maniche, no?
Stupido, si disse Ricky. Stupido stupido stupido.
Guardò davanti a sé, prima il cofano sul quale stava per scivolare con l’anca, poi il cassone del veicolo, sperando che non fosse pieno di attrezzi spezza-caviglie, perché quello era il passo successivo. Un’orda di bianchi può pestare un indiano senza pietà, certo, non c’è dubbio, succede ogni fine settimana sull’Hi-Line. Ma prima devono acchiapparlo.
E adesso che, secondo i suoi calcoli, si era alleggerito di quasi un chilo e mezzo di liquidi e stava smaltendo la sbornia rapidamente, neppure l’ex corridore del gruppo sarebbe riuscito a sfiorargli la camicia con un dito.
Ricky accennò un sorriso a denti stretti e annuì per farsi coraggio, liberandosi di tutti i fucili che non potevano più ingombrargli la testa, fucili che in realtà si trovavano dietro il sedile del suo pick-up all’impianto. Li aveva presi quando era partito da Browning, anche quelli degli zii e del nonno – stavano tutti nello stesso ripostiglio vicino alla porta di casa –, e poi aveva agguantato la sacca da tre litri e mezzo piena di cartucce, pensando che qualcuna dovesse andare bene per quelle armi.
L’idea era che arrivato a Minneapolis avrebbe avuto necessità di fondi, e i fucili si trasformano in contante più in fretta di qualsiasi altra cosa. Solo che poi, lungo la strada, aveva trovato lavoro. E si era messo a pensare agli zii che avevano bisogno di riempire il congelatore per l’inverno.
In piedi nello sterminato parcheggio di quel bar per operai in North Dakota, Ricky promise di rispedirli a casa tutti quanti. Ma forse doveva togliere gli otturatori e mandarli in pacchetti separati, in modo che i fucili non fossero più veramente fucili?
Ricky non lo sapeva, ma sapeva che in quel momento avrebbe voluto tra le mani quel calibro 30-06 a pompa. Per sparare, se proprio occorreva, ma soprattutto per menare colpi a destra e a manca, stampando mezzelune sulle guance, sulle sopracciglia e sulle costole con l’estremità aperta della canna, mentre il calcio sarebbe stato perfetto per le mascelle.
Forse sarebbe crollato nel parcheggio in una pozza del suo stesso piscio, ma quei luridi bianchi si sarebbero ricordati del Piedi Neri e ci avrebbero pensato due volte se avessero visto entrare un altro come lui nel loro bar.
Se almeno ci fosse stato Gabe. Andava matto per queste situazioni di merda, gli piaceva giocare a indiani e cowboy in tutti i parcheggi del mondo. Avrebbe lanciato il suo stupido grido di guerra e sarebbe partito a testa bassa. Per lui, ogni singolo giorno della sua ridicola vita poteva essere come un giorno di centocinquant’anni fa.
Insieme a lui, però, con Gabe… Ricky socchiuse gli occhi, scosse di nuovo la testa per farsi forza. Almeno per finta… per cercare di imitare Gabe, ecco. Quando Ricky era con Gabe anche lui aveva sempre voglia di lanciare un grido così, di quelli che, a un certo punto, quando si fosse voltato per affrontare i bianchi, gli avrebbero dato la sensazione di impugnare un tomahawk. Di avere il viso dipinto a chiazze bianche e nere, screpolate e minacciose, magari con una linea di rosso larga quanto un dito sul lato destro.
Gli anni possono svanire come se niente fosse, amico.
«Allora», disse Ricky e, con le mani serrate a pugno e il petto già ansante, si girò per farla finita, stringendo forte i denti per non scombussolarsi troppo se nel voltarsi avesse incontrato un pugno.
Ma… nessuno?
«Ma che…?», disse Ricky, interrompendosi, perché sì, qualcosa c’era.
Un’enorme sagoma scura, che si arrampicava su una 280z bianco perla, fuori posto.
E non era un cavallo, come aveva pensato d’istinto. Gli scappò un sorriso. Era un wapiti, no? Grosso e bene in carne, con i palchi non ramificati, troppo ottuso per capire che lì ci andavano le persone, mica gli animali. Sbuffò una volta dalle narici e si lanciò contro il pick-up alla sua destra, lasciando il bel cofano di quella piccola Nissan sollevato ai lati come un taco e tutto affossato al centro. Ma almeno l’auto era rimasta in silenzio. Il pick-up contro il quale si era scaraventato il wapiti si offese molto di più, e il suo allarme acuto e penetrante squillò talmente forte che l’animale si piantò nel terreno con tutti e quattro gli zoccoli. Invece dei venti percorsi logici che avrebbe potuto imboccare per allontanarsi dal rumore, s’inerpicò sul cofano del veicolo e cadde dall’altra parte.
E ormai quel giovane wapiti ubriaco stava già andando a sbattere contro un altro pick-up, e poi un altro ancora.
Stavano scattando tutti gli allarmi, tutte le luci si accendevano e si spegnevano.
«Ma che ti prende, amico?», disse Ricky al giovane cervo, impressionato.
La sensazione durò poco. Adesso il cervo si era girato e si stava fiondando in un corridoio tra le vetture, a testa bassa come un toro, proprio in direzione di Ricky…
Ricky si gettò di lato, contro un altro pick-up, facendo scattare un altro allarme.
«Ce l’hai con me?», urlò al wapiti, allungando un braccio nel cassone di un pick-up a caso. Tirò su un’enorme chiave inglese che sarebbe stata un buon deterrente, pensò. Sperò.
E pazienza se lui pesava duecentotrenta chili buoni di meno.
E pazienza se i wapiti non si comportano così.
Quando sentì il giovane cervo sbuffare alle sue spalle, si voltò sferrando un colpo, ma la testa tonda della chiave prese in pieno lo specchietto laterale di una grossa Ford. L’allarme risuonò acuto e lacerante, facendo lampeggiare tutte le luci disponibili, e quando Ricky si girò verso lo scalpitio di zoccoli dietro di sé, stavolta non erano zoccoli, ma stivali.
Tutti gli operai e i cowboy che aspettavano di entrare nel bar.
«Lui… lui…», balbettò Ricky, impugnando la chiave come un manganello, mentre un veicolo su due nelle immediate vicinanze lampeggiava di dolore e mostrava i colpi appena subiti. La vide anche lui, la scena che vedevano loro: quell’indiano si era fatto maltrattare nel bar, non sapeva chi guidasse cosa, e così se la stava prendendo con tutti i veicoli del parcheggio.
Tipico. Da un momento all’altro uno di quei bianchi avrebbe detto qualcosa sul fatto che Ricky era fuori dalla riserva, e allora ciò che doveva accadere poteva cominciare sul serio.
A meno che Ricky, mettiamo, non volesse restare vivo.
Buttò la chiave inglese nella fanghiglia, tese la mano e disse: «No, no, voi non capite…».
Invece capivano.
Quando si fecero avanti per dargli una lezione alla vecchia maniera, Ricky si voltò, si lasciò cadere a metà sulla 280z che non aveva danneggiato e passò un brutto momento quando le dita protese di qualcuno si agganciarono a un passante della cinta, ma lui girò i fianchi di scatto, si divincolò, cadde in avanti e con le mani a terra accennò qualche passo sbilanciato. Una bottiglia di birra gli sfiorò la testa e si frantumò sulla griglia di un radiatore proprio di fronte a lui, allora Ricky tirò su le mani per proteggersi gli occhi e scartò di lato pensando di aggirare il pick-up. Ma non fu sufficiente: il fianco gli restò impigliato nell’ultima barra della griglia che lo fece virare contro un altro veicolo, con un altro stupido allarme.
«Vaffanculo!», urlò al pick-up, a tutti i pick-up, a tutti i cowboy, al North Dakota e ai giacimenti petroliferi e all’America in generale, e poi, mentre correva a più non posso lungo una corsia tra le auto, impigliandosi in una serie di specchietti, due dei quali gli rimasero in mano, sentì un sorriso affiorargli sul volto: il sorriso di Gabe.
Ecco cosa si prova, allora.
«Sì!», gridò Ricky, mentre un’ondata di adrenalina e di paura gli montava dietro gli occhi, infrangendosi su ogni suo pensiero. Si voltò e corse all’indietro per segnare a dito gli operai con tutte e due le mani. Quattro passi dopo quel gran gesto fondamentale, si ritrovò in uno spazio aperto, una specie di cavedagna in un campo arato, inciampò col tacco dello stivale sinistro su una roccia o su una zolla di erbaccia gelata e finì a gambe all’aria.
Dietro di sé vide sagome scure scavalcare con un balzo interi cassoni, i cappelli da cowboy sollevarsi in aria insieme a loro e non riscendere, diventando semplicemente parte della notte.
I bianchi si sanno muovere…, si disse, senza troppa convinzione, poi si puntellò, si alzò e anche lui riprese a muoversi.
Quando il rumore di passi e il trapestio di stivali si fecero troppo vicini, tanto da diventare insopportabili, Ricky capì che era arrivato il momento: si aggrappò a un parafango laterale in vetroresina e lo usò per compiere una brusca e improvvisa sterzata a novanta gradi verso il lato lungo del veicolo, dove avrebbe dovuto esserci la fiancata. Ma a quel punto passò sotto scivolando, facendosi strada con i tacchi lisci dei suoi stivali da lavoro.
Aveva imparato a fuggire in quel modo a dodici anni, quando era capace di strisciare come un serpente.
Il pick-up era alto quel tanto che bastava per scivolargli sotto, nel fango, e lo slancio lo portò più o meno a metà del veicolo. Per arrivare dall’altro lato allungò una mano in cerca di appigli, ma la pelle del palmo e delle dita si bruciò all’istante sul tubo di scappamento di sette centimetri.
Ricky gemette, ma non si fermò e sbucò dall’altra parte talmente veloce da andare a sbattere contro un catorcio che non aveva l’allarme. Due macchine più avanti, le sagome scure stavano facendo una rapida inversione a centottanta gradi, guardando a destra e a manca per trovare l’indiano.
Abbassati, si disse Ricky, e sparì, correndo così acquattato che sembrava un militare, come se fosse in trincea, come se volassero proiettili. E non era da escludere.
«Eccolo!», urlò un operaio, ma la voce era abbastanza lontana e Ricky capì che si sbagliava, che stavano per lanciarsi in massa su qualcun altro per quei dieci o venti secondi necessari a rendersi conto che non era un indiano.
Una decina di pick-up tra lui e loro, finalmente, Ricky si rizzò in tutta la sua statura per sincerarsi che non fosse quel Dakota a patire le conseguenze.
«Sono qui», disse agli operai, non proprio a voce alta, poi si voltò, superò l’ultima fila di veicoli e finì nel canale di scolo della stretta fettuccia d’asfalto che l’aveva portato fin lì e che si snodava tra il parcheggio del bar e chilometri e chilometri di praterie gelate.
Sarebbe stata una notte di cammino, dunque. Una notte a nascondersi da ogni paio di fari. Una notte fredda. Meno male che sono indiano, si disse, tirando in dentro la pancia per chiudere la cerniera della giacca. Agli indiani del freddo non importa niente, no?
Rise sbuffando, mostrò il medio a tutto il bar senza voltarsi, un gesto accennato sopra la spalla con la mano che bruciava, poi salì sull’asfalto sbiadito e, proprio in quel momento, gli scoppiò una bottiglia accanto allo stivale.
Sobbalzò, prese fiato e guardò dietro di sé la massa di ombre, ormai solo braccia, gambe e capelli a spazzola, che si spostava oltre i pick-up.
L’avevano visto, avevano scorto il suo profilo indiano stagliarsi contro quella distesa d’erba pallida e gelata.
Sbuffò tra i denti incazzato, scosse la testa da una parte all’altra e attraversò l’asfalto mettendosi bene in mostra per vedere quanto fossero malintenzionati. Avevano davvero voglia di un indiano, quella sera, al punto da mettersi a correre in aperta prateria a novembre, o si sarebbero accontentati di cacciarlo via?
Invece di fidarsi della ghiaia e del ghiaccio sul margine opposto, Ricky la prese in scivolata, lasciò che lo slancio lo rimettesse in piedi appena i tacchi degli stivali toccarono l’erba, poi trasferì tutta la spinta in una corsa protesa in avanti che sarebbe culminata in una caduta anche se non avesse beccato nella pancia il filo di recinzione più alto. Finì a testa in giù come niente, il filo si staccò per metà dalle grappette, tanto per esser certi che la faccia gli si piantasse fino in fondo nell’erba croccante dall’altra parte.
Ricky si girò, con la faccia rivolta alla scia di stelle distesa su tutta quell’oscurità, e considerò che forse avrebbe fatto meglio a restarsene a casa e andare al funerale di Cheeto, che forse non avrebbe dovuto rubare le armi di famiglia. E forse non avrebbe nemmeno dovuto lasciare la riserva.
Aveva ragione.
Quando si rialzò, c’era un mare di occhi verdi che lo fissava proprio da dove avrebbe dovuto esserci solo erba gelata e spazio aperto.
Era un grande branco di wapiti, in attesa, che gli sbarrava la strada, e c’era anche un altro grande branco che sopraggiungeva dietro di lui, un branco di uomini già sull’asfalto, le voci che si alzavano, i pugni chiusi, gli occhi che scintillavano bianchi.
indiano ucciso in una lite fuori da un bar.
Che è un modo per dirlo.