Torna in libreria Philip Kerr, con chi se non con Fazi? E con lui tornano le indagini di Bernie Gunther … Siamo a Berlino, nel 1936, stanno per irrompere le Olimpiadi, ma scoprite da soli cosa succede leggendo l’estratto in esclusiva per voi … E seguite il blogtour, mi raccomando.

TRAMA

Berlino si prepara a ospitare le Olimpiadi del 1936. Per placare i dubbi espressi dagli Stati Uniti arriva in città il rappresentante del comitato olimpico americano, che rassicura il governo statunitense: in Germania non ci sono discriminazioni. In realtà i nazisti sono al potere da appena diciotto mesi, ma la Germania ha già assistito ad alcuni cambiamenti spaventosi: gli ebrei sono stati espulsi da tutte le organizzazioni sportive. Noreen Charalambides, affascinante giornalista americana ebrea, si reca a Berlino progettando di scrivere un articolo di denuncia. La giovane donna viene ospitata dall’amica Hedda Adlon, proprietaria dell’hotel dove Bernie Gunther, che ha lasciato la omicidi per via delle sue idee giudicate troppo liberali, è responsabile della sicurezza. L’hotel è frequentato da personaggi di spicco, ma nel giro di poco in una stanza viene trovato il cadavere di un uomo d’affari. Non molto tempo dopo dalle acque di un canale spunta un altro corpo senza vita: quello di un pugile ebreo. Mentre Bernie scava per portare alla luce la verità, scopre un vasto racket del lavoro e dell’edilizia progettato per trarre vantaggio dalle ingenti somme che i nazisti stanno spendendo per mostrare la nuova Germania al mondo. È un complotto che troverà la sua drammatica e violenta conclusione vent’anni dopo, nella Cuba prerivoluzionaria.

ESTRATTO

Era uno di quei rumori che provengono da lontano e che possono essere scambiati per qualcosa di diverso: una sudicia chiatta che sbuffa lungo la Spree; il lento movimento di una locomotiva sotto il grande tetto a vetri della stazione di Anhalter; il respiro caldo e frequente di un drago enorme, come se uno dei dinosauri di pietra dello zoo di Berlino avesse preso vita e si trascinasse lungo la Wilhelmstraße. Finché non ci si rendeva conto che si trattava di una banda militare era difficile riconoscerlo, e anche a quel punto sembrava troppo meccanico per trattarsi di musica prodotta da esseri umani. All’improvviso l’atmosfera si riempì dei tonfi degli strumenti a percussione, del tintinnio dei triangoli, e alla fine lo vidi: il drappello militare che marciava come se avesse il proposito di procurare lavoro agli stradini. Al solo vederlo sentii dolermi i piedi. Avanzavano a passo di marcia lungo la strada, il fucile Mauser sulla spalla sinistra, il muscoloso braccio destro ondeggiante con l’esattezza di un pendolo tra il gomito e la cintura con aquila in rilievo, la testa, infilata nell’elmetto d’acciaio grigio, ben eretta e il pensiero, ammesso che ne avessero, perduto in sciocchezze come “Un popolo, un Führer, un impero… la Germania!”.

La gente si fermava a osservare facendo il saluto militare a quel brulichio di bandiere naziste impugnate dai militari – un’intera merceria di stoffa da tende rossa, nera e bianca. Di corsa, per fare lo stesso, arrivò altra gente piena di entusiasmo patriottico. I bambini venivano issati su spalle possenti o fatti passare tra le gambe dei poliziotti perché non perdessero niente dello spettacolo. Solo l’uomo che mi stava vicino sembrava tutt’altro che entusiasta.

«Si ricordi questo», disse. «Quel pazzo idiota di Hitler intende far scoppiare un’altra guerra con l’Inghilterra e con la Francia. Come se l’ultima volta non avessimo perso abbastanza gente. Tutto questo marciare su e giù mi fa vomitare. Può darsi che sia stato Dio a inventare il diavolo, ma è stata l’Austria a darci il Capo».

L’uomo che aveva pronunciato queste parole aveva una faccia che sembrava quella del Golem di Praga e una figura simile ai barili che si vedono sui carri di birra. Indossava una giacca di pelle e un berretto con una tesa che si inarcava esattamente al di sopra della fronte. Aveva orecchie da elefante indiano, baffi come una spazzola da bagno e un enorme doppio mento. Ancor prima che scagliasse il mozzicone della sigaretta che fumava verso la grancassa e la colpisse, attorno a quello sconsiderato commentatore si era fatto il vuoto, come se quell’uomo fosse portatore di una malattia mortale e contagiosa. E nessuno avrebbe voluto trovarsi vicino a lui quando sarebbe apparsa la Gestapo con la sua idea particolare di medicina.

Mi allontanai camminando svelto giù per la Hedemannstraße. Era una giornata mite di fine settembre, quando una parola come “estate” mi fa pensare a una cosa preziosa presto dimenticata. Come libertà o giustizia. “Germania svegliati!” era lo slogan sulla bocca di tutti, ma a me sembrava che, immersi nel nostro sonno, marciassimo a passo dell’oca verso un disastro terribile, anche se ancora ignoto. Questo non significava che sarei mai stato così stupido da dirlo in pubblico, e certamente non in presenza di sconosciuti. Avevo dei principi, certo, ma avevo ancora tutti i miei denti.

«Ehi, lei!», urlò una voce dietro di me. «Si fermi un attimo. Voglio parlarle».

Continuai a camminare, ed ero già arrivato sulla Saarlandstraße – già Königgrätzer Straße finché i nazisti non decisero che tutti noi dovevamo ricordare il trattato di Versailles e l’ingiustizia della Società delle Nazioni – quando il proprietario di quella voce mi raggiunse.

«Non mi ha sentito?», domandò. Prendendomi per le spalle mi spinse contro un cartellone pubblicitario e mi mostrò un dischetto di bronzo di riconoscimento. Da quel distintivo era difficile stabilire se appartenesse alla polizia statale o a quella locale, ma da ciò che sapevo della nuova polizia prussiana di Göring solo i ranghi inferiori si portavano dietro tappi da birra di bronzo. Non c’era nessun altro sul marciapiede e il cartellone pubblicitario ci nascondeva alla vista di chi passava per strada. Non che sul cartellone fosse incollata una vera e propria pubblicità. A quei tempi la pubblicità si limitava a una scritta che ammoniva gli ebrei a stare alla larga.

«No, non l’ho sentita», dissi.

«Quell’uomo che ha parlato in modo sedizioso del Capo… lei deve avere sentito quello che ha detto. Era proprio accanto a lui».

«Non ricordo di aver sentito parlare in modo sedizioso del Capo», risposi. «Ascoltavo la banda».

«E allora perché se n’è andato all’improvviso?».

«Mi sono ricordato di avere un appuntamento».

Le guance gli si arrossarono un po’. Non aveva una faccia piacevole. Aveva occhi scuri, tenebrosi, bocca rigida e ghignante e mascelle piuttosto prominenti. Era una faccia che, sembrando già un teschio, non aveva niente da temere dalla morte. Se Goebbels avesse avuto un fratello un po’ più rabbioso e alto avrebbe potuto essere quell’uomo.

«Non ci credo». E schioccando le dita con impazienza aggiunse: «Carta di identità, prego».

Il “prego” era gentile, ma non avevo nessuna voglia di fargliela vedere. La sezione otto della pagina due segnalava la mia professione, sia per il passato che per il presente. E dal momento che non ero più un poliziotto ma l’impiegato di un albergo sarebbe stato come spiattellargli con tutta chiarezza che non ero nazista. Peggio ancora. Un uomo che è stato costretto a lasciare la polizia investigativa di Berlino per la sua fedeltà alla vecchia Repubblica di Weimar può benissimo essere uno che finge di non aver sentito un altro fare discorsi sediziosi sul Capo. Ammesso che si trattasse di sedizione. Ma sapevo che quel poliziotto mi avrebbe probabilmente arrestato, anche solo per rovinarmi la giornata, e che altrettanto probabilmente l’arresto avrebbe significato un paio di settimane in un campo di concentramento.

Schioccò di nuovo le dita e, come annoiato, allontanò lo sguardo. «Via, via, non ho a disposizione tutta la giornata».

Per un attimo mi limitai a mordermi un labbro, irritato di essere tiranneggiato ancora una volta non solo da quel poliziotto con la faccia da cadavere, ma dall’intero potere nazista. Ero stato costretto a dare le dimissioni dal mio lavoro di investigatore capo della kripo – un lavoro che amavo – e a sentirmi come un paria per la mia adesione alla vecchia Repubblica di Weimar. Molte erano state le colpe della Repubblica, è vero, ma almeno era stato un regime democratico. E dal momento della sua caduta, Berlino, la mia città natale, era riconoscibile a stento. Prima era il luogo più libero del mondo. Adesso sembrava una vera e propria piazza d’armi. Le dittature sembrano sempre buone finché qualcuno non comincia a darti ordini.

«È sordo? Vediamo quella dannata carta di identità». Il poliziotto schioccò di nuovo le dita.

La mia irritazione si tramutò in rabbia. Misi la mano sinistra in tasca per prendere la carta, voltando il corpo di poco, ma abbastanza da nascondere la destra che si chiudeva a pugno. E quando glielo affondai nella pancia lo feci con tutto il peso del corpo.

Lo colpii troppo forte. Davvero troppo forte. Il pugno gli tolse il respiro, e anche di più. Se colpisci un uomo allo stomaco in quel modo rimane stordito per un bel pezzo. Per qualche istante appoggiai a me il corpo senza sensi del poliziotto, poi lo introdussi con noncuranza nella porta girevole del Kaiser Hotel. La mia rabbia si stava già trasformando in qualcosa che somigliava al panico.

«Credo che quest’uomo abbia avuto una specie di colpo apoplettico», dissi all’accigliato portiere depositando il poliziotto su una poltrona di pelle. «Dove sono i telefoni? Devo chiamare un’ambulanza».

Il portiere mi indicò un punto dietro l’angolo del bancone.

Per risultare più credibile allentai la cravatta del poliziotto e mi mossi come se mi dirigessi verso i telefoni. Ma appena mi trovai dietro l’angolo oltrepassai una porta di servizio e scesi giù per delle scale, uscendo poi dall’albergo attraverso le cucine. Emerso in un vicolo che dava sulla Saarlandstraße, entrai velocemente nella stazione di Anhalter. Per un attimo considerai l’idea di salire su un treno. Poi vidi il tunnel sotterraneo che metteva in comunicazione la stazione con l’Excelsior, il secondo migliore albergo di Berlino. Nessuno avrebbe mai pensato di cercarmi là. Non in un posto così vicino. In più l’Excelsior aveva un bar eccellente. Non c’è niente che ti metta più sete che mandare ko un poliziotto.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *