Dopo la recensione, ecco l’intervista all’autrice Cristina Brondoni di “Voglio vederti soffrire” edizioni Clown Bianco.
Cristina, prima fatica letteraria e la soddisfazione di avere fatto centro. Quando hai scoperto di poter essere anche una autrice oltre che una criminologa?
Non so se ho fatto o meno centro. Ma se me lo dite voi de La Bottega del Giallo sono portata a crederci. Ho scoperto di poter scrivere fiction quando, un pomeriggio come un altro, al culmine della frustrazione per un caso archiviato come suicidio che stavo (e sto ancora) seguendo, e che è un omicidio, ho messo le mani sul Mac e ho iniziato a scrivere una storia. Era estate e faceva un caldo soffocante. La finestra del mio studio, al piano rialzato, dà sulla strada. Certi giorni mi è bastato guardare fuori per avere qualche idea. Dopo quattro settimane l’ho finito. Mi è parso una sorta di terapia. Ho ripreso in mano il caso dell’omicidio archiviato come suicidio, e la frustrazione se n’era andata.
Nel tuo libro a tratti è come se il lettore vedesse scorrere una pellicola perché il ritmo e la narrazione rallentano fino a creare vere e proprie immagini visive. Tu che sensazioni hai provato mentre scrivevi questo romanzo?
Le stesse che hai raccontato nella domanda. Avevo in mente le immagini della storia, le guardavo e le scrivevo. Credo che in parte si debba alla mia dipendenza da serie tv, che risale a quando avevo sette o otto anni. Il ritmo di una storia, anche quando la si racconta a voce, è quello che la connota, che la rende viva, vitale.
Enea Cristofori è un profiler e in qualche modo c’entra molto con il lavoro che tu hai sempre fatto. Ti chiedo, perché un protagonista maschile, una donna ti avrebbe coinvolta troppo e forse ti avrebbe messo più in difficoltà?
Non credo che ci sia così tanta differenza. Ci sono bellissimi personaggi femminili creati da uomini e personaggi maschili altrettanto belli creati da donne. Nel romanzo ci sono personaggi maschili e femminili: quando ho iniziato a scrivere ho solo seguito la necessità di raccontare una storia, senza preoccuparmi di altro. Non ho badato ai ruoli e al genere. E, per dirla tutta, a un certo punto, sono stati i personaggi a emergere. Non li avevo pensati: sono diventati così mano a mano che scrivevo.
Non è troppo facile costruire il senso di angoscia e desolazione in una metropoli italiana nel mese di agosto?
Milano, in agosto, è una città meravigliosa. Parlo della pressione demografica, non del clima. Credo che sia l’unico mese a renderle davvero giustizia. L’assenza di traffico, i visi sorridenti e rilassati dei turisti, il bianco brillante del marmo di Candoglia del duomo che al tramonto diventa rosato. I mezzi di trasporto puliti, perché pressoché vuoti. Tutto questo restituisce la dimensione umana a una città frenetica. E pur sempre bellissima, dal mio punto di vista. In genere si parla di “bella stagione”, anche se, per come la penso, la bella stagione, è l’autunno, seguito dall’inverno. E più fa freddo, meglio è. Il senso di desolazione lo possiamo trovare sempre, ovunque. Anche in mezzo a una piazza affollata. L’angoscia e la paura sono dentro di noi ed emergono per cose semplici, facili: il buio, la presenza di un estraneo, un rumore di passi. Nel mio romanzo c’è la luce accecante del sole di agosto. E tutto avviene sotto quella luce. Che, come il buio, può essere molto, ma molto angosciante.
Se dovessi racchiudere Voglio vederti soffrire in un’unica frase del libro quale sceglieresti e perché?
«Avrebbe potuto vivere con Enea e non era fondamentale che lui ne fosse informato». È una frase che contiene la follia e la fragilità di una mente che vacilla. Dall’altra parte c’è che, senza saperlo, chiunque può trovarsi in balìa di qualcuno che per ragioni tutte sue vuole fargli del male. E, fare del male a volte è semplice, basta volerlo.
Grazie a Cristina Brondoni per il tempo regalatoci.