L'omicidio della felicità

L'omicidio della felicità

UN PO’ DI NABOKOV E ZADIE SMITH NEL NUOVO ROMANZO DI ANI

Pubblicato in Italia dalla Emons Edizioni per la collana Gialli tedeschi, L’omicidio della felicità – Un altro caso per Jakob Franck di Friedrich Ani – “pluripremiato autore di libri che in tedesco si chiamano Krimes, parola più intensamente sinistra di romanzi polizieschi o gialli” (P. Lepri, Corriere della sera) – è il secondo dei romanzi che vedono come protagonista il commissario in pensione Jakob Franck.

Ex capo della squadra omicidi e attualmente volontario collaboratore del direttore dell’Ufficio persone scomparse, Franck si è assunto il compito, una volta ritrovati i cadaveri delle vittime, di portare ai parenti la notizia della morte: compito che lo trasforma in una sorta di araldo dell’infelicità umana e che lui assolve con rigore, assieme a quello, nel caso in cui il colpevole non appaia nell’immediatezza delle indagini, di condurre un’inchiesta riservata e personale per tentar di risalire alla verità.

Ne L’omicidio della felicità è quindi l’ex commissario a portare alla madre e al padre dell’undicenne Lennard, scomparso senza lasciar tracce un piovosa sera di novembre di trentaquattro giorni prima, la notizia del ritrovamento del cadavere e dell’inizio delle indagini relative all’omicidio: commesso da chi, e per quali motivi, spetterà adesso alla squadra capitanata dal collega André Block e, tra le quinte, allo stesso Franck cercar di rintracciare, in un universo a un tempo affollato e claustrofobico che ha per sfondo una Monaco di Baviera “piovosa e fredda, ripiegata su sé stessa – che Ani riesce a farci immaginare come pochi scrittori sanno fare, specchiandola nei suoi abitanti, sottraendo e non aggiungendo dettagli” (P. Lepri, Corriere della sera).

La sottrazione è la cifra del romanzo: sottrazione di tempo, con lo zio parrucchiere del piccolo Lennard che, la sera della scomparsa, pur in ansia per il temporale che si sta scatenando sulla città continua a far la tinta a una vecchia capricciosa invece di passare a prendere il nipote a scuola; con il compagno più grande del ragazzino che, per non far tardi, gli ruba la bicicletta all’uscita, costringendolo a una deviazione per il parco che gli risulterà fatale; con la madre che si ritaglia, nell’improvvisa desertificazione d’ogni possibile felicità, un tempo suo, cristallizzato, labile e sospeso come i fiocchi di neve che danzano al di là delle finestre, andando ogni notte a far le pulizie nel silenzio e nel vuoto del locale che gestisce assieme al marito…

Il silenzio e il vuoto avvolgono, ogni notte, pure la stanza del figlio, dove lei si nasconde tra gli oggetti ch’erano suoi: tra questi, una rete da pesca, che Lennard ha appeso al soffitto e riempito di ricordi, sottraendola alla sua primitiva funzione o, meglio, rendendone palese quella nascosta.

Un oggetto dall’incanto ormai struggente, con le sue maglie fragili e tenaci, metafora della vita che tutti imprigiona nelle sue trame e nella sua insostenibile natura doppia, generatrice di eternità e fugacità a un tempo: “Quanto è per sempre? chiede Alice al Coniglio Bianco. “A volte, solo un secondo” è la risposta…

Dei gabbiani strillavano nella sua testa: alzò lo sguardo al soffitto e li vide appollaiati sulla rete da pesca, cinque uccelli bianchi dal becco giallo, sempre nella stessa posizione, vigili e immobili. La rete era appesa al soffitto tra la porta e la finestra; con i loro becchi i gabbiani trafiggevano nell’aria pesci, stelle marine e molluschi; tra le creature marine collezionate da Lennard sonnecchiava anche un’aragosta. ‘Un tempo l’aragosta era il suo peluche preferito, te lo ricordi?’. Maximilian guardò in su. ‘L’aveva portato dalle vacanze’… ‘L’ha messo nella rete insieme agli altri, l’anno scorso. La fase dei peluche è finita’. Tanja fissò la mensola che un bel giorno Lennard aveva sgombrato; gli animali di stoffa erano stati riposti nell’armadio e non ne aveva più parlato… Si volse verso la finestra e rimase sorpresa perché la candela non era più accesa: ‘Qualcuno l’ha spenta’, osservò.

E sottrazione è anche cancellazione di cose, con il padre di Lennard che, nel finale, riduce metodicamente in pezzi ogni oggetto della camera, esasperato dalla progressiva scomparsa della moglie: che si assenta, sì, dal momento in cui le viene annunciata la morte del figlio sembra cancellarsi progressivamente, occultando il proprio essere fisico in molteplici nascondigli (la stanza di Lennard, dove lei si chiude a chiave; il pub immerso nella solitudine notturna), nel tentativo – lucido, e neanche troppo nascosto – di far infine combaciare la propria irreversibile pietrificazione emotiva a quella fisica, che le risulta ormai innaturale, fastidiosa, superflua; col pallone del ragazzo, lo zaino, la bicicletta che non si trovano più o che si ritrovano all’improvviso, per caso, disperatamente impregnati, ancora una volta, di assenza; con quei cadaveri, infine, quelle ossa spolpate dal tempo che il tempo non sembra voler restituire.

Cinque ragazzi e tre ragazze sono infatti scomparsi negli ultimi quarant’anni: otto casi che l’ex commissario non è riuscito a risolvere e che gli pesano come pietre sull’anima, stendendolo a terra, ogni mattina, in un complesso rituale di concentrazione che assomiglia ai rituali penitenziali dei monaci medievali insidiati dal demonio…

E sottrazione è, infine, sottrazione di persone, con quei rapporti umani che da tempo non esistono più, se pur sono mai esistiti; quelle esistenze cristallizzate nella routine, quel guardare la vita al di qua d’un vetro, invisibile e tenace membrana che preserva dalla contaminazione con un esterno infido, gravido della minaccia insita nel fatto stesso d’esser vivi.

“Il dio della membrana è sempre con noi” scrive, in Lolita, Nabokov, altro immenso indagatore degli innumerevoli strati di superfici che avvolgono gli esseri complessi (tutti, in pratica) e ne rendono inesorabilmente impossibile la piena comprensione, la reale conoscenza. “Possiamo, per così dire, avvicinarci sempre di più alla realtà; ma mai a sufficienza, perché la realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque inestinguibile, irraggiungibile. D’un particolare oggetto possiamo sapere sempre di più, ma non potremo mai sapere tutto: non c’è speranza”.

Bellissima, in questo senso, la fase delle indagini in cui Jakob fa visita ai condomini delle case che affacciano sul parco dov’è stato rinvenuto il cadavere di Lennard: tutti potrebbero aver guardato da quelle finestre, e qualcuno l’ha fatto davvero, e tuttavia poco o niente hanno visto o ricordano, immersi nel rombo indistinto delle loro vite sottovuoto, nella luce da acquario di quelle stanze dalle finestre chiuse; ciechi e sordi nell’anima come sordo è, anche nel fisico, uno dei possibili testimoni che Franck decide d’interrogare.

Le peregrinazioni dell’ex commissario, le sue conversazioni al limite dell’onirico con i polipeschi abitanti dei vari appartamenti richiamano da vicino le analoghe visite che i tre ragazzini protagonisti del romanzo Denti bianchi di Zadie Smith – autrice, non a caso, d’un saggio su Nabokov – fanno ai vicini di casa per portar a termine un compito assegnatogli dall’insegnante: le stesse risposte vagamente ostili, la stessa apparente stabilità del vivere percorsa da crepe profonde; la stessa percezione dell’abisso appena dietro l’angolo, al di là della porta chiusa.

Traduzione: Fabio Lucaferri

Editore: Emons
Anno: 2018